I disturbi del comportamento alimentare hanno assunto negli ultimi
decenni proporzioni preoccupanti tra le patologie psicologiche che
affliggono il mondo occidentale. L’età d'insorgenza è mediamente fra
i 14 e i 18 anni con una netta prevalenza femminile (85%). Le cause
sono generalmente multiple, di natura familiare, individuale e
socio-culturale. Oggi si parla di “Sindrome Anoressico Bulimica”,
inquadrando così le due tipologie di disturbi alimentari classici,
anoressia e bulimia, lungo un continuum che sottende una
problematica comune.
Analizziamo per primi i fattori familiari che possono essere
implicati nello sviluppo di tali patologie. Nel caso dell’anoressia
da sempre ha rivestito un ruolo fondamentale il rapporto fra la
ragazza e la figura materna: un legame particolarmente intenso, con
una forte identificazione della madre con la figlia, spesso in
compensazione ad una relazione coniugale deludente, ma tenuta
nascosta. Spesso queste donne hanno rinunciato alla loro
realizzazione personale in favore della famiglia, da cui nascono i
vissuti depressivi e l’attaccamento morboso verso le figlie, con un
comprensibile vissuto d'eccessiva responsabilità di queste ultime
verso le madri, in una paradossale inversione di ruoli. In queste
famiglie la comunicazione passa attraverso il cibo, tutta
l’attenzione è incentrata sul corpo della figlia, le cui difficoltà
emotive sembrano non esistere. Queste figlie rappresentano
l’espressione dei desideri dei genitori, un mezzo per colmare un
vuoto che non potrà mai essere riempito realmente.
Anche nel caso della bulimia esistono difficoltà rispetto alla
separazione, in particolare dalla madre: l’ingestione del cibo
rappresenterebbe il desiderio di fusionalità simbiotica con essa e
l’espulsione un tentativo di separarsene. Le madri si rapportano
alle figlie come fossero estensioni di se stesse; in queste famiglie
ogni membro dipende dall’altro, soprattutto nel gestire le qualità
“cattive” e inaccettabili, che spesso vengono proiettate sulla
ragazza bulimica, con conseguente costante attenzione su di essa e
sviamento dai reali problemi, di solito conflitti coniugali.
La figura del padre, poco studiata in realtà, è comunque importante
e spesso rappresenta una risorsa determinante in terapia. Infatti,
il padre spesso c’è ma è silenzioso ed assente. Il più delle volte
questa assenza è carica di risentimento per essere stato espulso
dalla “coppia” formata da madre e figlia; egli però non protesta e
non agisce, quindi solo rientrando nel suo ruolo di compagno della
madre potrà favorire il raggiungimento di quella separatezza e di
quella identità personale fondamentali per la crescita emotiva di
tutti i membri della famiglia.
Per quanto riguarda l’incidenza dei fattori socio-culturali vi sono
numerosi studi a proposito. L’ipotesi è che il dilagare dei disturbi
alimentari nella società occidentale sia l’espressione estrema del
mutamento radicale avvenuto a partire dagli anni sessanta delle
aspettative sociali nei confronti delle donne. I problemi
psicologici infatti ruotano attorno a questioni di autostima,
autonomia e successo in un clima generale di crisi rispetto
all’identità femminile e di ambiguità circa la definizione del ruolo
della donna. Essa infatti è soggetta a spinte contraddittorie,
spesso inconciliabili: da una parte viene promossa (soprattutto dai
mass media) l’immagine della “superdonna”, forte e di successo,
dall’altra permane l’idea tradizionale che il proprio valore sia
legato alle capacità di protezione, cura, nutrimento, assistenza e
in fondo di passività, così come tramandato da un’educazione
millenaria.
Ecco quindi come tutte queste richieste, pressanti e paradossali,
generino un sentimento profondo di insoddisfazione, svuotamento, una
spaccatura nella propria identità, tra una facciata di perfezione,
compiacenza e capacità da un lato e dall’altro un sé nascosto che
prova sentimenti confusi di bisogno, rabbia e impotenza.
Tutte queste problematiche vengono spostate sulla gestione (rifiuto,
incorporazione, espulsione) del cibo, che però bisogna sottolineare
ne è solo una manifestazione simbolica, per cui in terapia non è
consigliabile una focalizzazione su di esso, ma piuttosto sulle
tematiche sottostanti di cui abbiamo discusso.
Laura Villata,
psicoterapeuta, Torino |