Thomas Szasz, psichiatra statunitense,
ha compiuto un esame approfondito sulle analogie tra il concetto di
malattia mentale e quello della stregoneria dato che, come nel
Seicento, l’odierno trattamento dell’insanità rientra sotto il
controllo istituzionale. Egli scrive:
"E’ accaduto che un’ideologia
religiosa si è trasformata in un’ideologia scientifica: la medicina
ha rimpiazzato la teologia; lo psichiatra l’inquisitore, e il malato
mentale, la strega. Il risultato è la sostituzione di un movimento
di massa medico al posto di uno religioso; la persecuzione dei
pazienti psichiatrici rimpiazza la persecuzione degli eretici.
Basterebbe porre nuovamente in evidenza che proprio combattendo la
stregoneria, gli inquisitori la crearono veramente. Il fatto è che
la Chiesa non solo definì il colpevole e spinse al suo castigo, ma
creò il crimine stesso. Lo stesso naturalmente si può dire per la
Psichiatria Istituzionalizzata".
I processi per stregoneria e le
diagnosi di disturbo mentale hanno molto in comune: si analizzano
per prima cosa degli stati mentali, li si giudica, dall’inquisitore
o dal medico, vengono considerati devianti e perciò pericolosi per
la società. Le streghe e i pazzi sono essi stessi discorsi del senso
comune, che seppur di epoche diverse hanno lo stesso carattere
semantico: diversi, perciò devianti, quindi socialmente pericolosi.
In medicina le ipotesi diagnostiche
vengono confermate o al contrario confutate, sia dai rilievi che il
medico effettua durante l’esame del paziente, sia dai risultati
delle analisi laboratoristiche ovvero strumentali. Lungo il percorso
diagnostico tali rilievi assumono il significato di “oggettività”
e “verità” mediante i quali mettere
alla prova le ipotesi diagnostiche.
In psichiatria la “parte
oggettiva del procedimento diagnostico non esiste. Il colloquio
clinico e la raccolta anamnestica sono gli unici momenti su cui
realmente fondare la diagnosi”, afferma Invernizzi, dello
stesso parere sono G.B. Cassano e gli estensori del Manuale di
psichiatria medica: “in psichiatria i segni
obiettivi sono pressoché trascurabili e non esistono esami
strumentali in grado di fornire interessanti sussidi diagnostici”(Invernizzi
G., 1996).
A fronte delle considerazioni appena
riportate, e in virtù del fatto che in medicina i segni obiettivi e
i rilievi strumentali, nonché le indagini laboratoristiche sono
identificate come supporti essenziali tramite cui confermare (o al
contrario confutare) le ipotesi diagnostiche, la psichiatria che si
accinge a diagnosticare, sembra occupi una posizione alquanto
“deviante”, rispetto ai criteri diagnostici, normativi, propri della
diagnosi medica. Dal momento che in psichiatria i segni obiettivi, i
rilievi strumentali e le analisi laboratoristiche sono scarsi e
“pressoché trascurabili”, è lecito chiedersi di quali “supporti” il
diagnosta si avvalga per riconoscere con sicurezza un peculiare
“quadro morboso”.
La domanda che il lettore si può porre
è come sia possibile che la psichiatria, fondata su errori
metodologici, riesca a godere di ampio credito?
A livello sociale, potendo fruire del
prestigio di essere considerata una disciplina medica, la
psichiatria propone modelli esplicativi che, prescindendo dallo loro
adeguatezza teorico-metodologica, trovano piena legittimità e
riconoscimento nel senso comune. Infatti nel momento in cui la
verità “scientifica” proposta dalla psichiatria è divenuta
patrimonio culturale, essa si è integrata nel tessuto del senso
comune acquisendo, attraverso la condivisione collettiva, veridicità
e sostanzialità. Non è quindi importante sottolineare che il
linguaggio di cui si avvale la psichiatria è solo formalmente
medico, bensì diviene ora essenziale rendere esplicito che è l’uso
retorico che di tale linguaggio viene fatto ad averne decretato il
successo. Il concetto di disturbo mentale risulta infatti persuasivo
in quanto espresso attraverso l’utilizzo di una retorica medica e
dunque pervasivo a livello di senso comune, che ne accetta e
acquista significato. La “verità” del disturbo mentale, e quindi
della follia, è dunque custodita non tanto dalla psichiatria, quanto
dal senso comune, quale legittimatore dell’esistenza della prassi
psichiatrica stessa. La prassi psichiatrica si legittima e si
mantiene quindi non nell’ambito di un discorso scientifico ma in un
orizzonte sociale che non richiede “prove”, ma metodi e risultati
possibilmente comprensibili, vicini a ciò che la gente s’immagina,
si aspetta e già sa, ricorrendo a schemi di attribuzione causale
che, ingenuamente, collocano la causa nella società, nella famiglia,
nei valori, nelle turbe, nelle vicende infantili e nelle patologie
di personalità. La follia sembra quindi creata più dal senso comune
che dagli psichiatri, e il folle è colui che non si adegua o non
rispetta le regole del senso comune; la psichiatria sembra solo un
mezzo per legittimarne la definizione.
Il 14 febbraio 1904 viene promulgata
in Italia la prima legge che regolamenta la costruzione di
istituzioni psichiatriche, la legge n.36 dal titolo “Disposizioni
sui manicomi e sugli alienati”, in cui venivano codificati tra
l’altro i requisiti di coloro che dovevano essere ricoverati;
all’articolo 1, infatti, la legge recita :
debbono essere custodite e curate nei manicomi quelle persone
affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano
pericolose per sé o per gli altri, o riescano di pubblico scandalo e
non siano o non possano essere convenientemente custodite e curate
fuorché nei manicomi.
Appare chiaro che le norme contenute
nella legge rispondevano, sostanzialmente, ad esigenze di protezione
della parte considerata “sana” della società, preservata attraverso
la custodia e la sorveglianza degli “alienati” all’interno di
strutture concepite come luoghi isolati dal resto del mondo.
I manicomi venivano utilizzati anche
con lo scopo di nascondere, segregandole con facilità, persone
“scomode” alla famiglia o alle istituzioni. Un significativo esempio
di tale comportamento può essere rintracciato nell’episodio
raccontato dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga
il 29 novembre 1993, quando alla rete televisiva tedesca WDR rivelò
che durante i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro la procura di
Roma e il ministro dell’Interno, guidato dallo stesso Cossiga,
avevano messo a punto un particolare piano nel caso venisse
liberato. Il piano, denominato “Viktor”, prevedeva l’isolamento
dello statista in una clinica psichiatrica, perché come disse il
Presidente, <<sarebbe stato molto pericoloso lasciar parlare
all’improvviso un prigioniero appena liberato>>.
Oggi, dopo l’abolizione delle
strutture manicomiali, grazie alla legge Basaglia (legge 180 del 13
maggio 1978), l’affidarsi alla psichiatria si riversa nell’area del
privato, trasformando in vittime coloro che non riescono a governare
le relazioni e gli affetti nei limiti precostituiti da una morale
condivisa. Giuseppe Bucalo scrive:
La decisione sulla normalità o sulla
realtà di un’idea o di un’esperienza non è cosa che riguardi la
medicina. I processi organici sono impersonali: non sono giusti o
sbagliati, veri o falsi, morali o immorali. La decisione su cosa
mettere dal lato della malattia o della salute mentale non ha niente
a che vedere con la scienza, riguarda la coscienza, la morale, il
credo di chi si arroga il potere di giudicare.
I comportamenti psichiatrici qualora
considerati patologici o normali lo sono solo per una falsa
analogia: essi non sono altro che la traduzione entro un linguaggio
formalmente medico di comportamenti messi (precedentemente) in atto
all’interno di un orizzonte socio-culturale. L’errore concettuale
che lo psichiatra commette, risiede pertanto nella trasposizione
delle categorie e delle competenze mediche facendo implicitamente
passare per deviazioni da norme biologiche ciò che primariamente si
configura come deviazione da norme prescrittive. Per far chiarezza
al lettore su questo punto riporto un esempio concreto della prassi
psichiatrica. “Rifiutare di fare le commissioni” è un sintomo
utilizzato per diagnosticare il “disturbo mentale” denominato “Oppositivo-Provocatorio”.
Servirsi di una retorica medica consente allo psichiatra di
“trasformare" certi giudizi di valore in fatti costitutivi della
psiche, capaci di spiegarne l’anormalità del soggetto. Perciò
rifiutare di fare le commissioni non è una sequenza causale di
eventi naturali, tanto meno esiste una norma biologica grazie alla
quale il medico possa affermare che è (o non è) normale rifiutarsi
di andare a fare la spesa, ma all’interno di una retorica medica si
assume che quel comportamento rilevato dallo psichiatra può essere
patologico o meno.
E’ chiaro che non si mette in
discussione la validità del modello medico che ha per oggetto il
soma, perciò il corpo. La medicina ha migliorato il benessere di
tutta l’umanità perciò è indiscutibile la sua importanza per
ciascuno di noi. L’errore che si è fatto è quello di equiparare il
“soma-corpo” con la “la psiche-mente”. Sono due concetti non
assimilabili in quanto il primo è concreto, tangibile, osservabile,
mentre il secondo è un concetto astratto, ancora per certi versi una
chimera filosofica. Usare lo stesso modello di riferimento per
entrambi gli oggetti di studio ci permette di confutare dei
risultati “oggettivi” nel primo caso e rilevare dei risultati che
possono produrre “senso”, ma che sono arbitrari e senza fondamento
scientifico, nel secondo caso.
Riallacciandomi alle parole
introduttive di Thomas Szasz, ritengo che la stregoneria nel
Medioevo e la psichiatria di oggi hanno in comune non tanto la
produzione di conoscenza, ma di senso. La retorica del linguaggio
religioso nel primo caso e del linguaggio medico nel secondo
spiegano e decretano il loro sviluppo e successo.
Credo che il futuro possa essere dato
dalla psicologia, che può scegliere o di abbracciare il modello
medico, perciò psichiatrico, o di intraprendere una svolta
paradigmatica scegliendo di sviluppare un modello psicologico,
alternativo a quello medico. In questo modo si potrebbe dar avvio ad
una “rivoluzione copernicana” tale da dare un’identità a ciò che
oggi si definisce “psicologia”.
Michele Scala, psicologo, Padova
Bibliografia
- Tomas Szasz, Il mito della malattia
mentale, Milano, Feltrinelli, 1966.
- Giuseppe Bucalo, Dietro ogni scemo
c’è un villaggio, Ragusa, Sicilia Punto L, 1993.
- G. Invernizzi, Manuale di psichiatri
e psicologia clinica, Milano Mc Graw-Hill, 1996.
- Silvia Volpato, La follia nel teatro
di Dacia Maraini, Tesi non pubblicata della Facoltà di Lettere
dell'Università di Padova, 2005. |