Il bullismo, ovvero il fenomeno delle prevaricazioni fra bambini e
ragazzi, si presenta nel nostro paese con un’incidenza ormai
preoccupante. I mezzi di comunicazione si occupano praticamente ogni
giorno di episodi del genere, facendo emergere un nucleo di
ingiustizie e sofferenze che lascia sgomenti.
Negli ultimi anni la
ricerca sul bullismo è progredita di pari passo col diffondersi del
fenomeno. Sappiamo con certezza che fin dalla scuola elementare i
bambini non sono tutti uguali, che ci sono le vittime e i
persecutori, quelli che subiscono le prepotenze e quelli che le
fanno, bambini che per acquisire rispetto e superiorità usano la
forza fisica o la costrizione psicologica e bambini che di tali
violenze sono gli abituali destinatari. E gli adulti?
Spesso si ha
l’impressione che acquisiscano consapevolezza del fenomeno in
questione solo quando questo raggiunge evidenze eclatanti, oppure
quando sono loro stessi a farne le spese: insegnanti che non
riescono più a gestire le classi e genitori che hanno dismesso il
loro ruolo educativo. Eppure tutti siamo consapevoli che le
esperienze che i bambini e ragazzi vivono nella scuola costituiscono
una palestra fondamentale di apprendimento di quelle regole di
reciproco rispetto, lealtà e socialità che sono il bagaglio del
futuro cittadino in un paese democratico e civile. Da un punto di
vista psicologico con il termine “bullismo” si intende un processo
dinamico, in cui persecutori e vittime sono entrambi coinvolti e gli
elementi che caratterizzano il fenomeno sono intenzionalità,
persistenza e disequilibrio. Centrale è quindi la stabilità nel
tempo, quasi che persecutori e vittime, una volta insediatisi nei
loro ruoli, non riescano più ad uscirne e continuino a recitare la
stessa parte, pena la perdita della propria identità.
E’
fondamentale allora riuscire ad individuare il momento in cui un
intervento sia ancora possibile per spezzare questa perversa
circolarità. Sono infatti ormai ampiamente provate le connessioni
tra episodi di bullismo in età scolare e disadattamento in età
successive. I bulli spesso diventano adulti asociali e le vittime
possono essere destinate all’abbandono scolastico, alla depressione
e, in casi estremi, al suicidio. I bambini che hanno
sistematicamente sopraffatto gli altri hanno maggiori probabilità di
continuare ad incorrere in azioni antisociali, non solo perché
mantengono quelle caratteristiche di aggressività, impulsività e
irrequietezza, ma anche a causa della reputazione che li circonda e
che fa sì che essi non possano fare a meno di comportarsi come gli
altri si aspettano da loro. Sul che fare di fronte a questo fenomeno
preoccupante e dilagante si pone certamente in primo piano
l’intervento nelle scuole.
Da sperimentazioni già condotte si ricava
in maniera unanime che le tecniche di apprendimento cognitivo ed
emotivo adottate inducono nei ragazzi fondamentalmente una maggiore
consapevolezza del fenomeno. Sono necessari dunque interventi che
abbiano una durata che copra almeno l’intero anno scolastico e
soprattutto che facciano parte di un piano che comprenda oltre
all’intervento sulla classe, un impegno globale che coinvolga la
politica dell’intera scuola, compreso il personale docente e non
docente, le famiglie, il quartiere, le ASL.
L’obiettivo è la
prevenzione, che si raggiunge contribuendo ad enucleare e rafforzare
quei fattori protettivi che possono ostacolare il cammino della
violenza e del sopruso. E’ sul fronte dell’assunzione di
responsabilità da parte di tutti che dovrebbe far leva qualsiasi
programma d’intervento che non miri solo alla repressione ma punti a
creare davvero una “mentalità antibullismo” che, partendo da
motivazioni empatiche, si traduca in regole da rispettare e in
azioni che concretizino tale rispetto.
Laura Villata ,
(Psicologa, Torino)
Bibliografia
- Ada Fonzi,
Piccoli bulli crescono, Rivista
Psicologia Contemporanea, n.144.
|